Le mani in pasta
“La sola rivoluzione che vogliamo deve cominciare dal basso. Dall’interno del popolo. Lasciate entrare nella vecchia vita familiare quest’aria nuova. Educate i bambini in libertà, verità ed allegria. La vita sarà mille volte più bella quando la donna sarà realmente una donna libera”.
Questo leggiamo in uno degli ultimi documenti di Mujeres Libres, rivista che prese il nome da un’organizzazione femminista che nacque nel ’36 e che trovava più di 8000 aderenti nella sola Barcellona. Si rivolgeva prima di tutto alla “donna operaia” in un’analisi molto radicale, prendendo sopratutto di mira le situazioni subalterne che coinvolgevano la vita delle donne, in politica, sul lavoro, dentro la sfera della felicità. Una rivista per sole donne, sulla quale scrivevano solo le donne. L’obiettivo editoriale era quello di preparare tutte quante all’emancipazione e alla rivoluzione, risvegliando le coscienze e promuovendo idee anarchiche. Le principali promotrici della pubblicazione femminista furono Lucia Sanchez Saornil, Mercedes Comaposada, Amparo Pocg y Gascon e Soledad Estornach, tra le altre.
Invece da un estratto dell’editoriale del primo numero si legge ancora:
“Il proposito è quello di incalzare l’azione sociale della donna, dotandola di una visione differente delle cose, evitando che la sua sensibilità e il suo cervello si contaminino con gli errori maschili”.
Ed è di fondamentale importanza ricordarci che nel 1932 la Spagna aveva introdotto il divorzio ed è delle stesso anno il divieto di esporre il crocifisso nelle scuole (non commento).
Nadine, Maria e altre parteciparono alla riunione aperta convocata dal direttivo della commissione per i diritti della donna, legato a Mujeres libres. La discussione sarà a proposito di La Garçonne, romanzo di Victor Margueritte, molto attento alle questioni sociali e convinto difensore dell’emancipazione delle donne e di un diverso tipo di convivenza dei popoli, che collaborò sopratutto con The Contemporary Review of Édouard Rod oltre che con giornali e periodici in ambito internazionale e comunista. Del suo virulento romanzo, tradotto in tempi da record in diverse lingue, ne furono vendute 750.000 copie, dopo l’uscita in Francia nel 1922 e la traduzione in castigliano.
Questo libro suscitò pesantissime polemiche e censure soprattutto da parte della Lega delle famiglie numerose e degli anziani combattenti. Solo per questo merita la lettura.
Comunque al noto scrittore insignito della Legion d’onore, fu imposto di restituire l’onorificenza per INDEGNITÀ MORALE.
Ma La Garçonne spalanca le barriere ed in breve tempo, finisce per rappresentare, in barba ad una cultura così reazionaria, una categoria umana: giovani spregiudicate, anticonformiste, androgine, curiose di tutto, anche di occasioni libertine per emanciparsi, viaggiare e imparare ad essere meno “oggetti”, sfoggiando in maniera spavalda abiti maschili e la famosa acconciatura. I capelli alla Garçonne.
Ma torniamo alla riunione, il dibattito è acceso e si ribatte che quelle raccontate nel romanzo, non sono nuove conquiste femminili. Le femministe insistono sul fatto che il cammino verso l’emancipazione è lontano. Ancora diritti negati. C’è chi come Maria invece rivendica assoluta libertà genitale e sessuale, innescando un diverbio con chi, secondo lei, vive in ambienti saffici alla moda, dediti a santoni e cocaina. Appare uno striscione:
DONNA SI NASCE. LESBICA SI DIVENTA DOPO AVER CONOSCIUTO L’UOMO.
Maria rincara la dose, si spinge a difendere il diritto del libero amore a prescindere dallo stato civile, e la possibilità per donne portatrici di handicap, di avere rapporti sessuali con prostituti maschi.
“Voi uomini non potete fare nulla per noi fino a quando non farete qualcosa per voi stessi”.
Ora sono tutte insieme, a urlare contro mariti, preti, padri e militari, la religione e la morale borghese. A sigillare la promessa di usare la pretesa impudicizia come arma vincente in barba all’etica dei falsi valori e poter tranquillamente godere di quello che i borghesi chiamano il VIZIO.
Bellissimo il “detto” di Santiago de Compostela citato da Manu:
“In amore e nell’impastare dobbiamo prendercela comoda. Come faccio io”.
E’ molto più di …quel che si dice… di un detto. E’ un esercizio di libertà, consapevolezza, rispetto e piacere. Candido e goloso, a forma di vita. Quindi per chi vive, si incomincia a imparare a “impastare” e quindi a preparare l’empanada con la consapevolezza che
“fino a quando ci saranno dei tiranni nessuno deve osare alzare una mano sui sogni di rivolta, qualunque essi siano”.
Si setacciano 800 gr. di farina bianca sopra una spianatoia, si forma un buco centrale nel quale versare 2 cucchiai di strutto fuso, mezzo bicchiere di olio d’oliva, sale (circa 15 gr.) e zucchero. Si comincia ad impastare aiutandosi con del vino bianco o acqua. Per ottenere una pasta morbida ed elastica che farete riposare per circa 2 ore.
Dividete l’impasto in due parti e stendetene una col mattarello sul tavolo infarinato, sistematela su una teglia da forno unta, lasciando che fuoriesca dai bordi. Mettete il ripieno prescelto, lavorate l’altra metà della pasta e accomodatela a coperchio, sigillando bene i bordi. Spennellate con tuorlo d’uovo e cuocete in forno per almeno 40 minuti, fino a che non sia ben dorata.
Faccio un esempio con una tipica farcia con le sardine:
Rosolate in padella con poco olio, 5 cipolle rosse, 3 peperoni verdi e 4 pomodori maturi spellati e senza semi. Ovviamente tutto lavato e tagliato a tocchetti. Aggiustate di sale e peperoncino, cuocendo per circa 15 minuti. Approfittate per pulire circa 800 grammi di sardine, che sistemerete sopra la pasta (qualcuno usa passarle 2 minuti nell’acqua bollente e poche gocce di aceto). Ora ricoprite con le verdure cotte, chiudete col il resto della pasta e mettete in forno.
“Anarchia e cucina. Vietato vietare”.
Frutto di un golosissimo innamoramento letterario, che riunisce insospettabilmente cuochi come Nino Bergese e un tipo come Luigi Veronelli (grande gastronomo, giornalista, conduttore televisivo, filosofo e anarchico italiano) così come registi amati a partire da Ken Loach, e molto altro. Tutto questo guazzabuglio/bugliolo sta dentro: La cuoca di Buenaventura Durruti – La cucina spagnola al tempo della “guerra civile” – Ricette e ricordi.
L’autrice, un’altra tipa notevole, è questa signorina che vi presento col suo nome di battaglia: Nadine. Vicinanza di cuore e cervello, intenti e desideri comuni nel piacere della possibilità di poter passare dalla tristezza, dall’inadeguatezza alla speranza, anche attraverso un percorso del mangiare e del bere, di rabbia, di fatica e di lotta, ci scrive:
«Le nostre truppe sono ritornate sulle posizioni di partenza, battute, non hanno più né gli uomini, né i mezzi per una nuova offensiva. Natale è alle porte, abbiamo deciso di preparare un po’ di frittelle. E’ l’ultima volta che cuciniamo e molte di noi le impastano di lacrime»
Il manoscritto servito per questo libro è stato trovato nel 1970 a Zurigo, in un lotto di riviste sulla guerra spagnola, di provenienza probabilmente francese. Qualcuno pensa che da questa centinaia di fogli, volantini, bozze di lettere e ricette dattiloscritte, ritagli di giornali che vanno dal 1932 al 1939, non venga a galla con forza, il ritratto della tragedia, del terrore, della disfatta, del sentire profondamente drammatico della guerra di Spagna. E invece per me e altri, non solo affiora ma risalta, da questi spaccati di “semplice” vita quotidiana e delle sue “ricette”:
«[…] la risposta ad una domanda che le giovani generazioni da sempre si pongono [spero] «Come si vive quando il negativo scende nelle strade?»
Nadine come tantissimi altri vive e paga sulla propria pelle quelle ferite che ti trasformano, rallentano, appesantiscono, mortificano i sogni. Però, però, «[…] in quegli anni la lotta ai fascisti smette di essere un affare politico per diventare una questione morale».
Racconterò via via, nel susseguirsi delle ricette, le mille cose che vengono fuori da questa chicca. Per ora scelgo, visto le temperature, un gazpacho andaluz non perché non abbia già raccontato di questa e altre zuppe parlandovi di un’altra delle mie donne: Alice B. Toklas (qui) ma la situazione descritta mi permette di spaziare in questo universo culinario che, come la musica, non ha confini.
Nadine non è più alla fabbrica munizioni, ma con altri compagni a compilare schede di film. Commenti critici per capire quanto il cinema può essere utile alla causa. Si appassiona più di tutto ad una pellicola: Reportage del Movimento Revolucionario en Barcelona di Mateo Santos.
Trovano divertente Nuestro Culpable, folle, ironica commedia musicale:
Anche la trilogia de l’Aguiluches de la Fai viene considerata interessante, questa, insieme a Homage to Catalonia di George Orwell, resoconto sulla guerra spagnola, furono fonte di ispirazione e tributo, per il film di Kean Loach “Land and Freedom”:
cominciato a girare prima del colpo militare del 18 luglio. Inizia tipo commedia musicale, strizzando l’occhiolino a Betty Boop, ma finisce con scene di cinema-verità e grandi entusiasmi rivoluzionari.
Passano ad altre pellicole considerate piene di quel neorealismo che «non sarà mai rivoluzionario». Parla Dolores che riempie le schede con Nadine e che giustamente, a parer mio, pensa che la verità non dovrebbe mai nuocere.
Allora. Allora fanno colazione con una tazza di gazpacho (deriva dal latino caspa: piccolezza, frammento, resto) così preparato:
Si ammollano in poca acqua tiepida tre fette di pane casalingo. Nel frattempo si spellano e si tolgono i semi da 600 gr. di pomodori maturi ed insieme ad un po’ della loro acqua, si mettono in un mortaio con un cetriolo a fette e senza semi, un peperone verde pulito e tagliato, 5 spicchi di aglio schiacciati senza anima, una tazza di olio di oliva, 3 cucchiai di aceto di vino, un pizzico di paprika, se l’avete un cucchiaio di sherry e il pane ammollato e strizzato.
Ora pestate il tutto e aggiungete acqua se serve. Se volete potete passare il tutto dallo staccio o in un passino e servite freddissimo, aggiustando di sale e pepe nero.
Quella mattina Nadine e Dolores lo accompagnarono solo con del pane ma nei giorni di festa… cubetti di prosciutto, pezzetti di uova sode e dadolata di verdure rigorosamente crude.
Fame zero
E’ tempo di festeggiamenti, festeggiamenti brasiliani. Brindo alla libertà!
Carnevale fuori stagione, tutto personale, tutto cuore, molto occidentale credo, che forse per capirlo, quello Brasiliano, bisognerebbe assaggiarne tanto.
Brindo per quello che più me lo rappresenta: la “confusione delle forme”, lo sconvolgimento delle condizioni sociali (nei Saturnali lo schiavo è promosso a padrone, il padrone serve gli schiavi; in Mesopotamia si deponeva e si umiliava il re, ecc.), la sospensione di tutte le norme. Violare i divieti e far coincidere i contrari, tempi di possibili sberleffi (senza incorrere nelle punizioni dei regnanti).
Insomma brindo in questo baccanale che vede tornare un Presidente.
Uno che, tra le tante cose, ha messo nel centro del mirino la sfida di sradicare la fame; nel 1946 Josué de Castro pubblicò Geografia della fame per dimostrare come la denutrizione di milioni di persone non sia il frutto di una fatalità bensì di un “problema” politico. Cito solo una cosa a questo proposito; Lula nel 1991 affidò ad un istituto di S. Paolo l’elaborazione di un programma per la sicurezza alimentare e nutrizionale. Miseria, diseguaglianza sociale, il voler far uscire la fame dalla clandestinità, l’economia completamente ferma degli anni ‘80, sono le ragioni che fanno muovere un presidente la cui storia personale è segnata dal partire molto, molto dal basso. Quindi si adopera per il programma Fame Zero che ha il merito di non essere assistenzialista, un tappabuchi di emergenze (senza eliminarla) ma un programma politico di inserimento sociale, coordinando politiche pensate come le tessere di alimentazione, microcredito, l’ampliamento della merenda scolastica, i ristoranti popolari, spacci, cucine comunitarie. Perché senza autostima, senso di cittadinanza, senza umano, non si va da nessuna parte.
Il programma di Lula sulla fame è copioso, mi limito a spilluzzicarci per renderci più consapevoli della situazione.
Non cito dati di povertà, nelle favelas la vita è eccessivamente “parca”. Voglio invece raccontare, in questo tempo di festa, la gastronomia della periferia che diventa gastronomia totale. La cucina delle favelas che diventa favela organica. Lo faccio parlando di Edson Leite.
Edson nasce e cresce in una grande baraccopoli vicino a S. Paolo, ha la fortuna di fare un po’ di esperienza, va a lavorare all’estero facendo tutta la gavetta e poi, decide di tornare. Tornare a S. Paolo non per fare lo chef in uno ristoranti della città, torna perché è consapevole di poter offrire ad altri quell’opportunità che rende dignità e bellezza. Nel 2016 fonda una scuola di cucina, la “Periphery Gastronomy” per gli abitanti delle favelas che, gratuitamente e tutte le sere, possono accedere ai corsi. Oltre cinquecento studenti sono stati sfornati, pronti a portare la favela cuisine fuori dal “ghetto”. Il fatto poi che la scuola si autofinanzi offrendo servizi di catering e viva di donazioni per una buona parte degli ingredienti o con azioni di recupero di avanzi di ristoranti e supermercati, è una bella rivincita sullo spreco.
E qui entra in campo una signora: Regina Tchelly
Anche lei parte dal basso: nasce nell’ 81 in una parte poverissima del Brasile, a 17 anni si trasferisce a Rio de Janeiro e lavora come domestica a casa delle famiglie più ricche. Trova alloggio in una delle baraccopoli della città, la favela Morro di Babilonia. È povera e con una bambina da mantenere. Si accorge che a differenza della sua casa di provenienza dove non buttavano via nulla, qui lo spreco di cibo e la malsana alimentazione, fanno da padroni. Inizia la sua battaglia per il cibo di qualità e la lotta allo spreco alimentare. Questa diventa la sua missione di vita. Prova a cucinare un po’ di tutto, compreso gli avanzi dati dove era a servizio e inizia col piantare un piccolo orto in una parte poco utilizzata della sua baracca. È brava, la cosa cresce, diventa un buon esempio. Ma il suo orto non è sufficiente per realizzare il suo progetto di gastronomia totale (utilizzare tutte le parti di alimenti locali e biologici, azzerare gli scarti e ridurre i costi, con ricadute positive a livello sociale e ambientale).
E’ allora che Regina tenta di accedere ai fondi statali per l’imprenditoria giovanile, ma il finanziamento viene negato: il progetto è troppo complesso. Ma lei non molla, riesce a contaminare con questa idee diversi abitanti della favela e un mese dopo sono 40 i mini orti: è l’inizio ufficiale del progetto “Favela Organica”. Diventa famosa, viaggia in tutto il mondo, apparizioni tv, incontro nel 2014 con Papa Francesco. È ospite dei principali eventi gastronomici, diventa la testimonial di un cibo sano ed economico, biologico e anti spreco.
Un altro esempio vivente di come sia possibile, direi doveroso, avere un diverso rapporto col cibo e con tutto ciò al quale è connesso.
Riporto fedelmente una sua ricetta, che avrei potuto tranquillamente passare per mia, tanto è permeata della mia cucina.
Ingredienti
1 tazza di riso integrale
1 tazza di gambi di cavolfiore tagliati a pezzetti
1 tazza di bucce di patate spezzettate
3 spicchi di aglio tritati
1 carota media grattugiata con la buccia
½ cipolla a dadini
prezzemolo fresco
sale
Preparazione:
Imbiondire l’aglio e la cipolla. Unire i gambi di cavolfiore, le bucce di patate e la carota. Quando le verdure si saranno ammorbidite, aggiungere il riso, mescolare e aggiungere 2 tazze di acqua. Cuocere per circa 20 minuti a fuoco lento. Spolverare con una manciata di prezzemolo fresco.
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L'erba meraviglia
Amaranto: prima di tutto per noi un bellissimo colore tra il cremisi, il granato ma più rosso, rosso scarlatto verso il viola.
Poi una pianta ornamentale anche chiamata erba meraviglia.
E ancora, un simbolo per i Maia dell’immortalità.
Se poi giochiamo con i simboli, questo colore racconta la capacità di sorprendere, meravigliarsi e stupirsi di fronte a persone, cose e accadimenti.
E questo è quello che più me lo rende affine e alleato.
Sì, perché questa pianta resiste alle contaminazioni e resiste pure al più mortifero pesticida della Monsanto (Mondiablo), che deve sempre accompagnare le coltivazioni transgeniche. Circola lo slogan: “noi con l’amaranto sconfiggiamo la Monsanto”.
Loro definiscono l’Amaranto una piaga (dispregiativamente “pigweed o superweed) una erba infestante e maledetta, ma si può ben capire il punto di vista; ragionano sui considerevoli danni dovuti alla resistenza di Amaranto anche al Roundup (tristemente famoso super erbicida a base di glifosato) e per una multinazionale che produce semi transgenici, non è il massimo.
Queste Kiwicha (significa sogno che non svanisce), hanno beatamente invaso le loro mega “piantagioni” di soia negli States.
Allora ode a questa pianta, inconsapevole eroina e portatrice di speranza. Nel fato, nel miracolo della natura, di ciò che essa impara dai comportamenti scriteriati e assassini e ce lo ritorce su un piatto, in questo caso di un bel rosso.
E’ una pianta antica, famiglia delle Amarantacee, considerata cibo sacro, alimento degli Dei, da Incas e Aztechi. Dalle alture andine, cresce e si riproduce con grande facilità, non si infetta con malattie o con insetti. Una capacità di adattamento così alta da essere vista germogliare da Rodolfo Neri, un astronauta, a bordo della stazione spaziale internazionale.
Semi e foglie, commestibili, di altissimo livello nutrizionale, si è diffusa come alternativa al grano (India, Nepal, Africa) e non contiene glutine. Oggi coltivata principalmente in Europa e negli Stati Uniti. (Ogni pianta produce una media di 12.000 chicchi e le foglie, più ricche di proteine della soia, contengono vitamine A e C, e sali minerali). Anche l’olio che si ricava ha un uso antico, sia come medicinale (adattissimo a chi soffre di diabete) che come cosmetico, lavorando sulle rughe e sulla elasticità della pelle. Trovate molte spiegazioni in rete.
Tantissime le ricette alimentari, sia con i semi che con la farina. Si usa come la quinoa, ben lavata, tostata e lessata. Insalate, pani, crocchette, polpette, verdure ripiene e dolci.
Interessante anche la possibilità di cucinarli tipo pop corn: in una padella di ferro rovente, versate 60 gr di semi; importante è ottenere uno shock termico che permetta a loro di scoppiare subito, senza correre il rischio di bruciare (con temperature più basse occorrerà molto più tempo col rischio che non scoppino o, appunto, brucino). Questa cottura vi permetterà di spaziare in preparazioni croccanti, dalla tavoletta ricoperta di cioccolato, alle colazioni mattutine con yogurt e vari tipi di bevande.
Vi lascio una idea di gnocchi curiosa (per 6 persone):
300 gr amaranto.
150 gr farina di riso o quinoa o bianca (di mandorle per la versione dolce)
4 patate lesse
1 uovo (potete ometterlo)
100 gr di latte (animale o vegetale)
50 gr parmigiano grattugiato (facoltativo)
aglio tritato, prezzemolo, noce moscata, sale e pepe nero – (zucchero e vaniglia per il dolce).
Lavate l’amaranto in abbondante acqua corrente, io lo asciugo e lo tosto per avere una consistenza meno “gelatinosa”, lessatelo poi in un quantitativo di acqua pari a 3 volte il suo peso per 30/40 minuti. Non mescolate e lasciate riposare 10 minuti dopo la cottura a pentola coperta per permettere ai chicchi di gonfiarsi. Schiacciate le patate, unite tutti gli ingredienti, aggiustate di sale e pepe e provatene la consistenza, formando uno gnocchetto da tuffare nell’acqua a bollore. Se si sfalda e non mantiene la forma, rilavorate l’impasto aggiungendo farina. Una volta trovata la giusta consistenza, cuocete tutti gli gnocchi. Conditeli come vostro uso. Come per tutti gli gnocchi, gli eventuali avanzi si possono recuperare gratinandoli in forno.
Per la versione dolce, una volta pronto l’impasto con lo zucchero e aromatizzato a vostro piacimento, fate delle palline, rotolatele nel pan grattato (di riso, di farina) e friggete in olio caldo.